Chi da grande sogna di essere un venditore? il ruolo degli stereotipi fra superficialità e stigma

Chi da grande sogna di essere un venditore? il ruolo degli stereotipi fra superficialità e stigma

del Professor Silvio Cardinali

Associate Professor in Marketing and Sales Management – Università Politecnica delle Marche

Cosa gli studi hanno dimostrato sullo stereotipo negativo della figura dei professionisti della vendita e l’impatto su assunzioni ed imprese

Molti lo definiscono il mestiere più antico del mondo ma alla figura del venditore, da centinaia di anni, a causa di  uno stereotipo negativo, vengono associati valori e comportamenti negativi. Il risultato di queste convinzioni radicate è che questa professione è ben poco desiderabile agli occhi di giovani e studenti.

Dall’altro lato – secondo il report Manpower del 2018  – questa è fra le 10 professioni più ricercate al mondo, tant’è che le imprese chiedono sempre di più venditori formati, motivati e spesso con competenze universitarie.

Come si spiega questo GAP? Quando e perché nasce lo stereotipo? Come viene percepita questa figura oggi?

Noi di SalesScience.it ce lo siamo chiesto ed abbiamo analizzato alcuni degli studi internazionali che hanno affrontato l’argomento.
Ecco cosa abbiamo riscontrato…

Quando e perché nasce lo stereotipo?

L’ “etichetta” non è sicuramente una cosa che scopriamo oggi, può essere usata a qualsiasi livello e riferita a qualsiasi concetto. È nella natura dell’uomo catalogare ed associare alcuni pre-concetti (positivi o negativi che siano, consciamente o inconsciamente) ad un determinato set di valori. In molti casi questo stratagemma ci permette di accorciare e semplificare i processi decisionali, attaccando etichette difficili da eliminare.

Tutto ok, se non fosse che in questo caso la parola “vendita” venga vissuta negativamente.

Da uno studio condotto da Francesco Orazi in Contemporary Professional Selling (Cardinali, 2019), emerge quanto il tema abbia radici storiche lontane. Lo stereotipo è presente sia nel Nuovo che nel Vecchio Testamento, associato alla figura del mercante (pensate alla cacciata dei mercanti dal tempio) così come in altri testi antichi.
Ma quali sono gli elementi del mercante da cui nasce questo stereotipo?
Abbiamo provato a raccoglierne alcuni:

  • il mercante viene da lontano, è visivamente e culturalmente diverso e da questo punto di vista porta con se sì il “nuovo” ma anche il “cambiamento”;
  • il mercante entra nella sfera “del sacro”, rappresentate dalle mura della città;
  • il mercante non dissimula l’interesse per il denaro, elemento invece meno marcato per altre professioni.

Ai giorni nostri – e più precisamente nel secolo scorso – nell’immaginario collettivo questa figura è personificata anche nei media del venditore porta a porta, il quale anche lui entra nella “sfera del sacro” (nella cultura occidentale la casa e la famiglia) ed ha un obiettivo che non dissimula: concludere l’affare.

Questa immagine negativa era già descritta nella letteratura manageriale fin dalla metà del secolo scorso ed è riscontrabile nel lavoro seminale di Stauton  (1958); dal titolo  “I Didn’t Raise My Boy to Be a Salesman”. In questo studio per la prima volta vengono analizzati i preconcetti e le valutazioni negative della figura professionale del venditore. L’idea chiave del lavoro è quella di evidenziare quanto l’immaginario collettivo influenzi la scelta della propria carriera e di quella dei figli. In questo caso gli stereotipi vanno ad incidere negativamente sulle scelte, impedendo, già da allora, di trovare le adeguate risorse umane in questa categoria professionale. Il titolo – al tempo provocatorio – dello studio riprendeva una vecchia canzone popolare americana (I Didn’t Raise My Boy to Be a soldier) e identifica proprio questo stigma: “non ho cresciuto mio figlio per essere un venditore

Come viene percepita questa figura oggi?

La figura del venditore racchiude in sé profili molto eterogenei: pensate ai contesti B2B rispetto a quelli B2C, a chi vende un servizio ad alto tasso tecnologico, rispetto ad uno che si occupa di commodity, a chi presidia un territorio, a chi segue un pacchetto di clienti chiave.

Uno degli aspetti che però sembra accomunare tutte queste figure è la persistenza dello stereotipo negativo associato nei loro confronti dall’attuale società.

Se chiedessimo a un genitore quale futuro immagina per il figlio, in pochi sceglierebbero quella professione: probabilmente preferirebbero un medico o un ingegnere. Portando dei dati più puntuali, in una ricerca condotta a livello europeo su duemila coppie intervistate, solo una (forse per errore?) ha pronunciato la parola “venditore”. Probabilmente altri potevano dare questa risposta, ma la scarsa desiderabilità sociale potrebbe averli inibiti.

Inoltre, se analizzassimo i film che hanno avuto come protagonista principale un professionista della vendita, ci accorgeremmo della chiara identità sociale della categoria – come ha evidenziato uno studio condotto dalla collega Ria Wiid della Royal Istitute of Technology di Stoccolma nel 2015. Nei dieci film esaminati, usciti dal 1985 al 2006 e analizzati con un approccio semiotico, viene restituita una figura del venditore con il seguente profilo: dotato di una certa “flessibilità morale”, con bassa scolarizzazione e con una situazione famigliare “complessa” (Alla ricerca della felicità); in cerca di una rivincita, a causa di una vita spesso fatta di sconfitte (Morte di un commesso viaggiatore); molto orientato al risultato su breve termine, più che alla reputazione. I venditori dei film inoltre vengono visti come manipolati e manipolatori relegati in un ambiente in cui governa la legge della carota e del bastone (in diverse pellicole, ma specialmente americane).

Se chiedessi a uno studente italiano iscritto a una triennale di economia: “ti piacerebbe percorrere una carriera nel mondo della vendita?” probabilmente mi risponderebbe: “Professore, ma allora perché ho studiato?”. Quindi, anche la visione degli studenti, nonostante rappresentino una nuova generazione, è fortemente stereotipizzata. In una recente analisi, condotta dall’Università Politecnica delle Marche, insieme ad altre quattro università europee, per il progetto INKAMS (International Key Account Management and Sales,) che ha lo scopo di promuovere la sales education nelle università europee, è stato esaminato l’atteggiamento degli studenti rispetto a questa professione, partendo proprio dalle associazioni mentali e utilizzando la metafora degli animali.

Il risultato individua due macrogruppi di atteggiamenti. Il primo associa una valutazione negativa ad animali spesso carnivori, guidati dall’istinto predatorio, in molti casi solitari. Shark, fox, lion, tiger, chameleon: sono questi gli animali più citati da studenti italiani, spagnoli, sloveni, bulgari e polacchi; questa visione risulta comunque coerente con la valutazione sociale che viene data a questo profilo. C’è tuttavia un’altra categoria di studenti, che ha invece una visione più positiva, spesso presentata dall’espressione “come dovrebbe essere” – il che vuol dire che nella realtà si è ancora fermi alla visione del primo gruppo. Questa seconda visione è identificata da vari animali, fra cui il kangaroo, capace di nutrire, lasciar crescere (nella fase marsupiale), curare e mantenere una relazione duratura anche nelle fasi successive.

Sarebbe interessante approfondire i possibili fattori influenzanti di tali valutazioni, che sono ascrivibili alla presenza di parenti e amici, e in particolare genitori, appartenenti alla categoria; alle esperienze passate di lavoro; ma anche al percorso formativo universitario, e in particolare allo studio, da parte degli studenti di argomenti collegati alle vendite.

Dunque, quello a cui assistiamo è il fatto che la concezione di questa figura e l’“etichetta” ad essa associata è rimasta la stessa da decenni, mentre in parallelo il ruolo del venditore ed il contesto economico in generale sono cambiati.